giovedì 5 febbraio 2009

Don Giuseppe Diana. Articolo per Tutti in Piazza


Il Seminario Vescovile, è situato nel pieno centro cittadino di Aversa, a pochi passi da piazza Marconi; la facciata dell’edificio si presenta semplice ed essenziale, con un ampio portone d’ingresso. Nei primi anni 70, l’atmosfera che si respira nel seminario è chiusa, isolata: è possibile leggere qualche giornale sportivo, vedere in tv una partita di calcio, ma il controllo sui seminaristi è costante.



Il Paese vive una condizione di crisi e di forti contrasti: la “rivoluzione culturale“ del sessantotto ha lasciato una traccia profonda; il referendum sul divorzio del ‘74 cancella una legge, fortemente voluta dai cattolici, soli quattro anni prima. La Lira subisce una svalutazione del 12%. La Campania, è un territorio che non riesce ancora ad intraprendere un serio processo di modernizzazione, grazie agli interventi statali nascono i primi grandi poli industriali. Giuseppe Diana, è un giovane studente del seminario, frequenta l’ultimo anno.

Il 1976 è un anno importante, come tutti gli studenti italiani, dovrà affrontare l’esame di maturità. Giuseppe è uno studente volenteroso e capace, ed i risultati ci sono.

Dopo la maturità, è ammesso alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, l’ambiente è rigido, forse troppo opprimente per lo spirito libero di Giuseppe, che decide di ritornare a Casal di Principe. Dopo un breve pausa di riflessione, continuerà gli studi teologici nel seminario di Posillipo, sede della Pontificia facoltà teologica dell’Italia Meridionale.

L’arresto del capo della Nuova Camorra Organizzata Raffaele Cutolo, l’assassinio del sindacalista Franco Imposimato, la fine dei clan Nuvoletta e Bardellino della Nuova Famiglia, l’uccisione del giornalista Giancarlo Siani e l’ascesa del clan dei Casalesi, caratterizzano negli anni ’80 in Campania, scrivendo nuove pagine alla storia della Camorra.

Si verificano due rilevanti cambiamenti: in primis, lo Stato prende finalmente coscienza del problema della criminalità organizzata. Al contempo, muta il rapporto che aveva scandito le relazioni tra Chiesa e Camorra, riassumibile in una solo vocabolo: indifferenza. In quanto, il Partito Comunista Italiano, ricopriva un ruolo di attore protagonista nella lotta alle mafie; dal canto suo, la Chiesa, pur di evitare qualsiasi tipo di appoggio ai comunisti, schivava il problema con qualche dimostrazione di dissenso.

In un’intervista rilasciata, nel 1994, a Repubblica Napoli, don Diana affermerà: “Ci sentiamo in qualche modo complici della demonizzazione perpetrata nei confronti della Sinistra. Da quei tempi molto è cambiato. Il ruolo della Chiesa qui, come nel resto del Mezzogiorno, è quantitativamente importante, qualitativamente invece è da recuperare. Oggi raccomandiamo ai cittadini di essere più attenti nelle scelte, individuando al di là di personalismi e favoritismi l’ uomo giusto e pulito che possa veramente interpretare i bisogni della collettività”. Quando il giovane don Giuseppe Diana, fa ritorno a Casale, per iniziare il servizio pastorale, il paese è profondamente scosso da omicidi e violenze.

Il clan domina in un clima di omertà e paura: la locale stazione dei carabinieri di San Cipriano d’Aversa, un paese limitrofo, è presa d’assalto da parte di un gruppo di residenti, solo grazie all’intervento di alcuni boss fu evitato il peggio. La piccola rivolta, fu causata da un intervento dei militari nel tentativo di sedare una rissa. 29 giugno 1982.

La Chiesa campana prende una posizione forte e decisa contro la Camorra, pubblica il documento “Per amore del mio popolo non tacerò”, una condanna senza termini nei confronti dei camorristi. Un duro colpo per l’organizzazione, a cui fa paura più la cultura e le coscienze, che la magistratura. “La violenza che, ormai da troppo tempo, si è scatenata e continua a imperversare nella nostra Regione –recita il documento – , non può non preoccupare noi Pastori, cui il Signore ha affidato le Chiese della Campania affinché in esse si attui il suo Regno di giustizia, di pace, di amore e di verità.

La preoccupazione non si limita ai fatti di violenza, già di per se gravissimi, ma si fa dolore per la diffusione, le motivazioni e le conseguente del fenomeno della camorra: tanti giovani attirati nelle su spire”.

Il rombo del motore, rompe all’improvviso, il silenzio che domina le strade del paese, un corteo di auto sfrecciano a tutta velocità per i vicoli di Casale, le sterzate improvvise, provocano un forte frastuono, prodotto dall’attrito del pneumatico sull’asfalto liscio. Le finestre delle case si chiudono all’istante, si sentono una decina colpi sparati in aria. Non è la trama di un film di James Bond, ma il corteo armato dei Casalesi, per festeggiare lo sterminio del Clan dei Bardellino, avvenuto nell’estate del ’88. Don Peppino, come veniva chiamato dai compaesani, si rimbocca le maniche, insieme alla comunità “sana” del paese organizza un dibattito pubblico: “Liberiamo il futuro”.

La sala del Cinema “Faro” è gremita, si fa vivo il coraggio e la voglia di reagire, è l’inizio di un lento cambiamento. Ma per il giovane sacerdote, divenuto nel frattempo parroco della parrocchia di San Nicola di Bari, il cambiamento deve partire anche dai giovani: si impegna con il gruppo Scouts ed insegna religione all’Istituto “Volta” di Aversa. Andava in giro per Casale in jeans, di tanto in tanto fumava anche il suo sigaro preferito, nessuna maschera per Don Peppino, solo autenticità, condita dalla paure e dalle incertezze comuni a tutti gli esseri umani. Il clima si fa teso, ora il “prete anticamorra”, come veniva chiamato dai giornali – definizione che lui non condivideva – da fastidio: è in prima linea sul fronte dell’antimafia, scuote le coscienze, organizza manifestazioni, gira per le scuole, rilascia interviste. Scritto, parola e testimonianza sono le armi che utilizza per combattere.

E nel 1991, decide insieme ai parroci del territorio di Casal di Principe, di diffondere l’ormai celebre documento dal titolo “per amore del mio popolo”. Nel documento, l’attacco alla camorra è diretto, “é una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana”.

I camorristi “impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili”; sono dediti all’estorsione, impongono tangenti sui lavori edili che scoraggiano l’onesta imprenditoria.

Gli “scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato.” C’è una precisa responsabilità politica, denuncia lo scritto, in quanto il disfacimento delle istituzioni ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli.

La Camorra riempie il vuoto di potere dello stato, sostituendosi come uno stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale. L’incapacità dello Stato legale e l’inefficienza delle politiche sociali e occupazionali, “non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi; un preoccupato senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l’inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini”.

“Le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che l’Azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una “ministerialità” di liberazione, di promozione umana e di servizio.” Il documento si conclude con un appello, rivolto anche ai parroci, di parlare “chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa” “Per amore del mio popolo” si diffonde a macchia d’olio, dando vita ad un grande movimento, ma don Peppino ripeteva sempre che “Non c’ è bisogno di essere eroi, basterebbe ritrovare il coraggio di fare delle scelte, di denunciare”.

Renato Natale, già capogruppo del PCI in consiglio, diventa Sindaco di Casal di Principe con soli 32 voti di scarto, uno schiaffo senza precedenti ai casalesi. Don Diana è spiato, controllato, guardato a vista dagli uomini del clan, lui ne era cosciente, sapevano anche degli spostamenti più riservati, come delle convocazione da parte della Dia di Napoli.

La primavera è iniziata, e Don Peppino, come ogni mattina si appresta a celebrare la messa, è il 19 marzo, il giorno del suo onomastico, San Giuseppe. In chiesa ci sono poche persone, un uomo si reca dritto verso la sacrestia, si avvicina a Don Peppe con in mano una pistola calibro 7.65, e gli spara 5 colpi.

Nel giorno dei funerali, migliaia e migliaia di persone riempirono le strade di Casal di Principe, i lenzuoli bianchi ricoprivano i balconi, ecco la speranza di Don Peppe Diana.

Andrea Cortese

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